L’aumento della domanda globale e il mancato accordo sui livelli di fornitura tra i membri dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio e i loro alleati hanno spinto, in data 28 settembre 2021, i prezzi dei futures sul greggio al di sopra dei 75 dollari al barile.
Secondo diversi economisti questi recenti aumenti difficilmente metteranno in crisi la ripresa economica.
Un dato da considerare è il costo del petrolio in proporzione al prodotto interno lordo, un indicatore di quanto impatta il costo del petrolio sulla crescita del PIL.
Secondo Morgan Stanley, questo indicatore dovrebbe salire al 2,8% del PIL globale per il 2021, assumendo che il prezzo medio del petrolio sia di 75 dollari al barile. Questo dato, però, rimane al di sotto della media a lungo termine che è pari al 3,2%.
Sempre secondo Morgan Stanley, per avere un impatto significativo sulla crescita del PIL, i prezzi del petrolio dovrebbero raggiungere una media di 85 dollari al barile.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, quest’anno l’economia globale crescerà del 6%, il ritmo più sostenuto da almeno quattro decenni. Ovviamente questa crescita è data dal rimbalzo dovuto al blocco dell’economia, imposto dai governi in base all’intento dichiarato di contenere la pandemia da corona virus.
A conferma di quanto previsto dal FMI, anche secondo la Federal Reserve Bank di New York, Il recente aumento dei prezzi è stato principalmente guidato da una maggiore domanda, piuttosto che da problemi di fornitura. Aggiungiamo noi che le economie avanzate sono molto meno vulnerabili agli aumenti del prezzo del petrolio rispetto ad alcuni decenni or sono, perché i servizi, che sono meno dipendenti dal petrolio rispetto all’industria pesante, rappresentano oggi una quota maggiore del PIL. Negli Stati Uniti di oggi ci vuole circa la metà del petrolio per produrre un dollaro di prodotto interno lordo rispetto a 35 anni fa, valore aggiustato per l’inflazione, secondo i dati forniti dell’Energy Information Administration.

Al contempo, l’aumento delle perforazioni di scisto negli ultimi due decenni hanno reso gli Stati Uniti un produttore di petrolio molto più importante rispetto al passato. Ciò significa che i produttori statunitensi, che hanno sofferto di prezzi del petrolio depressi al culmine della pandemia, costringendo alcuni di questi a far ricorso al Chapter 11, che i nostri lettori conoscono bene (qui e qui), ora invece ne stanno beneficiando.
L’economia europea, anch’essa dominata dai servizi, negli ultimi decenni è diventata meno dipendente dai combustibili fossili per le sue forniture energetiche, soddisfacendo quasi il 20% del suo fabbisogno da fonti rinnovabili come l’energia eolica e solare che nel 2004 coprivano solo il 9,6% del totale.
Anche secondo gli osservatori europei l’aumento dei prezzi del petrolio non rappresenterebbe una minaccia alla ripresa del continente, almeno per ora.
L’Unione europea ha rivisto al rialzo le sue previsioni per il 2021 prevedendo una crescita del 4,8% rispetto al 4,2% di tre mesi prima.

Questo implicherebbe per l’economia europea un ritorno ai livelli di produzione pre-pandemici entro la fine di quest’anno, tre mesi prima di quanto previsto precedentemente.
L’UE ha aggiunto che l’aumento dei prezzi del petrolio e di altre materie prime spingerà l’inflazione leggermente più in alto di quanto stimato in precedenza.
Secondo le loro previsioni i prezzi del petrolio raggiungeranno in media 68,7 dollari al barile per tutto il 2021, con un aumento del 54% rispetto all’anno scorso.
L’economia cinese, secondo gli analisti della banca d’investimento Natixis, quest’anno è proiettata verso una rapida crescita, ad un tasso di circa l’8%. L’aumento dei prezzi del petrolio, insieme a quelli di molte altre materie prime, ha ovviamente pesato sulle importazioni, ma gli indici di produzione della nazione indicano che la domanda interna rimane robusta.

Secondo Global Platts, le raffinerie cinesi stanno utilizzando le scorte interne e contemporaneamente stanno aumentando la produzione interna per alleviare la pressione dei prezzi più alti nei mercati globali.
Altri mercati emergenti, come Brasile e Russia, d’altra parte, potrebbero essere più esposti. I consumatori dei mercati emergenti sono di solito più sensibili all’aumento dei prezzi, dato che il cibo e l’energia costituiscono una percentuale maggiore della spesa.
A conferma di questo, rileviamo che le banche centrali di Brasile e Russia, sono state costrette ad aumentare i tassi di interesse nelle ultime settimane per contrastare l’aumento dell’inflazione.
Per quanto riguarda la Turchia, ad ogni aumento di 10 dollari del prezzo del petrolio si aggiungono più di 4 miliardi di dollari al suo deficit delle partite correnti, rendendolo più dipendente dai fondi esteri per la copertura del deficit e del debito estero. Secondo Morgan Stanley dobbiamo anche calcolare circa lo 0,5% in più sull’inflazione prevista.
Anche per Sudafrica e India, ad un aumento di 10 dollari del prezzo del petrolio si deve aggiungere lo 0,5% del PIL al loro deficit delle partite correnti.
All’aumento del prezzo del petrolio fa seguito l’aumento dei prezzi del carburante che ha contribuito a scatenare disordini sociali in Brasile e Pakistan, dove il governo ha risposto aumentando gli stipendi dei dipendenti statali del 25% all’inizio di quest’anno.
Dal lato dei paesi esportatori di petrolio, come la Russia e l’Arabia Saudita, l’aumento dei prezzi sostiene le casse dello Stato, aiutando i governi a riparare i bilanci e a migliorare i saldi delle partite correnti con conseguente possibilità di aumentare la spesa e stimolare la ripresa economica.
L’analisi di questi elementi ci fa concludere che, a questi livelli di prezzo del petrolio, non si dovrebbero avere evidenti impatti negativi sui livelli di crescita a livello globale.
Qualora i prezzi del petrolio dovessero stabilmente oltrepassare la quota di 85 dollari il barile, si dovrebbero rivedere le stime di crescita e di inflazione attese.
Aggiornamenti nei prossimi articoli.
Stay tuned…….